Come capire se la mia vita è in peccato?

IL PECCATO, REALTÀ POCO CAPITA

Nei nostri tempi si constata la disaffezione dei cristiani nei confronti della confessione. È uno dei segni della crisi di fede che molti stanno attraversando. Stiamo passando da una compattezza religiosa del passato a un’adesione religiosa più personale, consapevole e convinta.

A spiegare questa disaffezione verso la confessione non basta portare il fatto del generale processo di scristianizzazione della nostra società. Bisogna individuare cause più particolari e specifiche.

La nostra confessione si riduce spesso a un elenco meccanico di peccati che mettono in luce solo la superficie dell’esperienza morale della persona e non arrivano a toccare le profondità dell’anima.

I peccati confessati sono sempre gli stessi, si ripetono con esasperante monotonia tutta la vita. E così non si riesce più a vedere l’utilità e la serietà di una celebrazione sacramentale diventata monotona e fastidiosa. Gli stessi sacerdoti qualche volta sembrano dubitare dell’efficacia pratica del loro ministero nel confessionale e disertano questo lavoro monotono e faticoso. La cattiva qualità della nostra pratica ha il suo peso nella disaffezione verso la confessione. Ma alla base di tutto spesso c’è qualcosa di ancora più negativo: una conoscenza inadeguata o sbagliata della realtà della riconciliazione cristiana, e un malinteso a proposito della vera realtà del peccato e della conversione, considerati alla luce della fede.

Questo malinteso è dovuto in gran parte al fatto che molti fedeli hanno solo qualche ricordo della catechesi infantile, necessariamente parziale e semplificata, per di più trasmessa con un linguaggio che non è più quello della nostra cultura.

Il sacramento della riconciliazione è di per sé una delle esperienze più difficili e provocanti della vita di fede. Per questo va presentato bene per comprenderlo bene.

Concezioni inadeguate del peccato

Si dice che non possediamo più il senso del peccato, e in parte è vero. Non c’è più senso del peccato nella misura in cui non c’è senso di Dio. Ma ancor più a monte, non c’è più senso del peccato perché non c’è abbastanza senso di responsabilità.

La nostra cultura tende a nascondere ai singoli i legami di solidarietà che legano le loro scelte buone e cattive al destino proprio e degli altri. Le ideologie politiche tendono a convincere i singoli e i gruppi che la colpa è sempre degli altri. Si promette sempre di più e non si ha il coraggio di fare appello alla responsabilità dei singoli verso il bene generale. In una cultura della non-responsabilità, la concezione prevalentemente legalistica del peccato, trasmessaci dalla catechesi di una volta, perde ogni senso e finisce per cadere. Nella concezione legalistica il peccato viene considerato essenzialmente come disubbidienza alla legge di Dio, quindi come rifiuto di sottomettersi al suo dominio. In un mondo come il nostro in cui si esalta la libertà, l’ubbidienza non è più considerata una virtù e quindi il disubbidire non è considerato un male, ma una forma di emancipazione che rende l’uomo libero e gli restituisce la sua dignità.

Nella concezione legalistica del peccato, la violazione del comando divino offende Dio e crea un debito nostro nei suoi confronti: il debito di chi offende un altro e gli deve riparazione, o di chi ha commesso un reato e deve essere punito. La giustizia esigerebbe che l’uomo pagasse tutto il suo debito ed espiasse la sua colpa. Ma Cristo ha già pagato per tutti. Basta pentirsi e riconoscere il proprio debito perché questo gli venga perdonato.

Accanto a questa concezione legalistica del peccato ce n’è un’altra – anch’essa inadeguata – che chiamiamo fatalistica. Il peccato si ridurrebbe allo scarto inevitabile che esiste ed esisterà sempre tra le esigenze della santità di Dio e i limiti insuperabili dell’uomo, che in questo modo si trova in una situazione insanabile nei confronti del progetto di Dio.

Siccome questa situazione è insuperabile, essa è per Dio l’occasione di rivelare tutta la sua misericordia. Secondo questa concezione del peccato, Dio non prenderebbe in considerazione i peccati dell’uomo, ma semplicemente rimuoverebbe dal suo sguardo la miseria inguaribile dell’uomo. L’uomo dovrebbe solo affidarsi ciecamente a questa misericordia senza preoccuparsi più di tanto dei suoi peccati, perché Dio lo salva, nonostante egli resti un peccatore.

Questa concezione del peccato non è l’autentica visione cristiana della realtà del peccato. Se il peccato fosse una cosa così trascurabile, non si riuscirebbe a capire perché Cristo sia morto sulla croce per salvarci dal peccato.

Il peccato è una disubbidienza a Dio, riguarda Dio e colpisce Dio. Ma l’uomo per capire la terribile serietà del peccato deve cominciare a considerarne la realtà dal suo versante umano, rendendosi conto che il peccato è il male dell’uomo.