Quali sono le pene del Purgatorio?

I Padri ci dicono in generale:
S. Cirillo: «Se si potessero rappresentare tutte le pene, tutte le croci, tutte le afflizioni del mondo, e si paragonassero colle sofferenze del Purgatorio, diverrebbero dolcezze al paragone. Per evitare il Purgatorio si sopporterebbero volentieri tutti i mali sofferti da Adamo fino ad oggi. Sono sì dolorose le pene del Purgatorio che uguagliano in acerbità le stesse pene dell’inferno: sono della stessa grandezza. Una sola differenza passa tra loro: che quelle dell’inferno sono eterne, quelle del Purgatorio avranno fine». I dolori della vita presente sono permessi da Dio nella sua misericordia ad accrescere i meriti; le pene del Purgatorio sono create dalla Giusti zia divina offesa.

San Beda Venerabile, uno dei più dotti Padri della Chiesa occidentale, scrive: «Schieriamoci pure innanzi agli occhi tutti i tormenti più crudi che i tiranni hanno inventati per torturare i martiri: le mannaie e le croci, le ruote e le seghe, le graticole e le caldaie bollenti di pece e piombo, gli uncini di ferro e le tenaglie roventi, ecc. ecc.; con tutto questo non avremo ancora l’idea delle pene del Purgatorio». I martiri erano gli eletti che Dio provava nel fuoco; le anime purganti soffrono soltanto per scontare pene.

S. Agostino e S. Tommaso dicono che la minima pena del Purgatorio sorpassa tutte le pene massime che si possano da noi soffrire sulla terra. Ora immaginiamo quale è il dolore più vivo da noi provato: per esempio, ai denti; oppure il più forte dolore morale o fisico provato da altri, anche il dolore che è capace di dar la morte. Ebbene: le pene del Purgatorio sono assai più acerbe. E quindi S. Caterina da Genova scrive: «Le anime purganti provano tali tormenti che lingua umana non può descrivere, né alcuna intelligenza comprendere, eccetto che Dio la faccia conoscere per grazia speciale». Che se da una parte provano la dolce certezza d’essere salve, dall’altra «la loro inesprimibile consolazione non diminuisce affatto il loro tormento».

In particolare:
La pena principale è quella del danno. S. Giovanni Gris. dice: «Poni da una parte la sola pena del danno, poni dall’altra cento fuochi d’inferno; e sappi che è maggiore quella sola che questi cento». Le anime infatti sono lontane da Dio e sentono un amore inesprimibile verso così buon padre!

Uno slancio incessante verso di Lui, Dio di consolazione! un pungiglione d’amore che tutte le infiamma pel suo cuore. Bramano la sua faccia più che Assalonne desiderasse l’aspetto del padre che l’aveva condannato a non più comparirgli innanzi. Eppure esse si sentono respinte dal Signore, dalla Giustizia divina, dalla Purezza e Santità di Dio. E piegano il capo rassegnato, ma come naufrago nella mestizia, ed esclamano: Quanto si starebbe bene nella casa del Padre! Ed esse bramano la compagnia della cara Madre Maria, dei parenti già in cielo, dei beati, degli Angeli: e rimangono fuori, in tristezza, innanzi alle porte chiuse di quel paradiso ove è gioia e gaudio!

Uscita l’anima dal corpo, le rimane un solo desiderio e sospiro: d’unirsi a Dio, unico oggetto degno d’amore, da cui è attratta come il ferro dalla più potente calamita. E questo perché ha conosciuto quale bene sia il Signore, quale felicità essere con Lui. E non lo può!

S. Caterina da Genova adopera questa bella similitudine: «Se in tutto il mondo vi fosse un solo pane, il quale dovesse levare la fame a tutte le creature, e che queste col solo vederlo si saziassero: quale desiderio di vederlo in tutti! Eppure sarà proprio Dio il pane celeste capace di saziare le anime tutte dopo la vita presente.

Ora se questo pane fosse negato; e ogni volta che l’anima, tormentata da penosa fame, lo avvicinasse per gustarlo, le venisse tolto via, che succederebbe? Che il loro tormento si prolungherà quanto tarderanno a vedere il loro Dio». Esse bramano di assidersi a quella Mensa Eterna, promessa dal Salvatore ai giusti, ma patiscono una fame indicibile.

Qualcosa delle pene del Purgatorio si può capire pensando al dolore di un’anima delicata che ricorda i suoi peccati, le sue ingratitudini al Signore.

S. Luigi che sviene innanzi al confessore e certe lacrime dolcissime, ma cocenti, spremute dall’amore e dal dolore a piè del Crocifisso, ci danno l’idea della pena del danno. L’anima è così afflitta dei suoi peccati che prova una pena capace di far scoppiare il cuore e di far morire, se morire potesse. Eppure sta rassegnatissima prigioniera in quel carcere, non vorrebbe uscirne finché rimanesse un briciolo da scontare, essendo quello il divino volere ed amando essa ormai il Signore con perfezione. Ma soffre, soffre indicibilmente.

Eppure certi cristiani, allorché una persona è spirata, esclamano quasi con sollievo: “Ha finito di patire!”. Ebbene proprio in quel momento, in quel luogo, si sta compiendo il giudizio. E chi sa che non cominci quell’anima a soffrire?! E che ne sappiamo noi dei giudizi divini? Che se non avrà meritato l’inferno, come siete sicuri che non abbia meritato il Purgatorio? Innanzi a quel cadavere, in quel momento in cui si decide l’eternità, inchiniamoci medita bondi e pregando.

Nella storia del Padre Stanislao Kostka, domenicano, si legge il fatto seguente, che riferiamo perché ci sembra adatto ad ispirarci un giusto terrore dei patimenti del Purgatorio. «Un giorno, mentre questo santo religioso pregava pei defunti, vide un’anima, tutta divorata dalle fiamme, alla quale, avendo egli domandato se quel fuoco fosse più penetrante di quello della terra: Ahimè! rispose gridando la misera, tutto il fuoco della terra, paragonato a quello del Purgatorio, è come un soffio d’aria freschissima: – E come mai ciò è possibile? soggiunse il religioso; bramerei pur farne la prova, a condizio ne che giovasse a farmi scontare una parte delle pene che dovrò un giorno soffrire nel Purgatorio. – Nessun mortale, replicò allora quell’anima, potrebbe sopportarne la minima parte, senza morirne all’istante; tuttavia, se tu vuoi convincertene, stendi la mano. – Su di essa il defunto fece cadere una goccia del suo sudore, o almeno di un liquido, che aveva l’apparenza di sudore, ed ecco all’improvviso il religioso emettere grida acutissime e cadere in terra tramortito, tanto era grande lo spasimo che provava. Accorsero i suoi confratelli, i quali, prodigategli tutte le cure, ottennero che ritornasse in sé. Allora egli, pieno di terrore, raccontò lo spaventoso avvenimento, di cui era stato testimone e vittima, e conchiuse il suo discorso con queste parole: Ah! fratelli miei, se ognuno di noi conoscesse il rigore dei divini castighi, non peccherebbe giammai; facciamo penitenza in questa vita per non farla nell’altra, perché terribili sono quelle pene; combattiamo i nostri difetti e correggiamoli, (specialmente guardiamoci dai piccoli falli); il Giudice eterno tiene stretto conto di tutto. La Maestà divina è tanto santa che non può soffrire nei suoi eletti la minima macchia.

Dopo di che si pose in letto, dove visse, per lo spazio di un anno, in mezzo ad incredibili sofferenze, prodottegli dal l’ardore della piaga che gli si era formata sulla mano. Prima di spirare esortò nuovamente i suoi confratelli a ricordarsi dei rigori della divina giustizia, dopo di che morì nel bacio del Signore».
Lo storico soggiunge che questo esempio terribile rianimò il fervore in tutti i monasteri e che i religiosi si eccitavano a vicenda nel servizio di Dio, onde essere salvi da sì atroci supplizi.