Santi angeli custodi, trasmetteteci lo spirito della FORZA

Santi angeli, trasmetteteci lo spirito della FORZA,

perché siamo preparati contro gli attacchi dall’esterno e dal-l’interno e pronti a procedere sul nostro cammino verso il Golgota! “E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo” (Mt 10, 22). “Iddio di ogni grazia, che vi ha chiamati in Gesù Cristo all’eterna sua gloria, dopo che voi avrete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà egli stesso, vi renderà fermi, forti, incrollabili” (Pt 5, 10).

Il dono della forza deve inco-raggiarci al di là del naturale, perché intraprendiamo delle grandi cose per Dio e abbiamo la forza di portarle a fine, senza badare agli ostacoli. Il dono della forza agisce soprattutto in due direzioni. Trasmette il coraggio per le azioni eroiche e per la volontà eroica di sacrifi-carsi, di portare la croce assie-me a Cristo. Entrambi sono fondamentali.

Il coraggio per le azioni eroiche – cosa significa? La cresima è un particolare ‘sacramento di lotta’. Il cristiano viene unto soldato di Cristo contro ogni Suo avversario, contro la carne, il diavolo e il mondo. Il desiderio principale di ogni cri-stiano deve essere l’impegno per realizzare il regno di Cristo sulla terra che Lui stesso ha creato e redento. Le azioni eroiche non si manifestano soltanto tramite l’impegno, ma anche tramite il successo, la tenacia e l’insistenza. Molti ini-ziano con grande fervore, ma presto la loro energia viene paralizzata da molte influenze – interne ed esterne – e non resi-stono. Non basta un’azione spontanea, un fuoco di paglia. Il coraggio deve dimostrarsi soprattutto nella vita quotidia-na, irta di piccole avversità. Solo chi rimane fiducioso nella guida spirituale nel suo picco-lo, potrà agire eroicamente per Dio nelle situazioni eccezionali. Il coraggio come dono spiri-tuale non supera minimamente l’effetto del coraggio come virtù. La virtù è una caratteristi-ca umana, che viene alimenta-ta dalla grazia divina; il dono invece è esclusivamente l’azione dello Spirito Santo portan-do con sé lo spirito dell’uomo con gioia e senza obblighi, poi-ché `coloro che son guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio’ (Rm 8, 14). Il dono del coraggio include uno spettro molto ampio di sfere d’azione, dall’ambito sociale-caritativo a quello onesto-morale a quello politico; può superare anche le difficoltà più grandi e umana-mente impossibili.

Padre Damiano Deveuster, l’an-gelo dei lebbrosi, è un esempio raggiante di coraggio eroico: la lebbra ha lasciato l’Europa, ma non è sparita completamente dalla faccia della terra. Negli spazi infiniti della Cina, nella giungla tropicale e nelle paludi malariche delle isole malesi, il veleno dell’infezione è ancora attivo e anche il vecchio meto-do della segregazione dei leb-brosi viene ancora praticato. Soltanto di recente la previden-za sociale e la carità personale hanno attenuato la sorte di questi uomini miserevoli; con-temporaneamente, la medicina moderna ha trovato dei metodi di prevenzione e profilassi. Ma qual’era la situazione su queste isole quando gli infelici erano ancora abbandonati a se stes-si?

Non è stata la cosiddetta uma-nità a fare il primo passo per alleggerire la loro sorte immeri-tata; c’è voluto il sacrificio spontaneo della vita di un eroe cristiano, di un sacerdote, per attirare finalmente l’attenzione del mondo civilizzato sulla più crudele di tutte le malattie tro-picali. Questo sacerdote si chiamava Damiano Deveuster e nacque come figlio di conta-dini nel paese di Temeloo nelle Fiandre.

Lo aspettava una vita di sacri-fici, che forse nessuno aveva voluto affrontare prima di lui: quella di morire vivo lentamen-te.

Quando nel 1873 il vescovo Maigret visitò le zone missio-narie che si trovavano sotto la sua curia, parlò fra l’altro di una certa isola chiamata Molokai e del suo dispiacere di non essere ancora riuscito a mandare un pastore d’anime ai lebbrosi che vivevano sull’iso-la. Disse che i malati di Molokai avevano tanta sete di vivere da esser schiavi dei vizi più ripugnanti, che il puzzo delle piaghe aperte era insop-portabile e che nessuno pote-va fuggire all’infezione, una volta messo piede sull’isola. Nonostante queste parole, Damiano Deveuster si alzò immediatamente e si offrì volontario per andare a Molokai per sempre. Per coin-cidenza, proprio in quel momento era ancorata una nave, che qualche giorno dopo avrebbe portato un triste cari-co di lebbrosi a Molokai e allo-ra il vescovo benedisse il suo fedele collaboratore e lo salutò.

I malati sull’isola di Molokai furono colti da immensa agita-zione quando sentirono che un sacerdote avrebbe condiviso la loro comunità e non li avrebbe lasciati mai più. Con l’aiuto delle stampelle e sulle loro gambe in putrefazione si tra-scinarono da lui, nascosero i loro visi corrosi nelle sue vesti e urlarono una sola parola: `Padre, padre!’

Durante un’escursione sull’i-sola, Damiano capì che anche le voci più pessimiste erano vere, ma non perse il corag-gio. Concepì un piano di lavo-ro seguendo il principio: aiu-tare – distrarre – convertire.

Aiutare: facile a dirsi ma diffici-le da mettere in pratica. Perché in quel paese dei morti vivi mancava tutto: medicinali e medicazioni, dottori e infermie-ri. Chi non riusciva più ad alzar-si era condannato a morire di fame. Deveuster si occupò per prima cosa dei più poveri, i soli e i gravemente malati nelle putride capanne di canna. La loro condizione di abbandono e il regolare ritorno della sta-gione delle piogge lo indussero a costruire delle casematte fisse. Per lunghi mesi accettò di dormire all’aperto su un letto improvvisato, per poter offrire quanto prima un tetto asciutto ai suoi malati e poter bruciare le vecchie capanne. Ci volle poco per convincere i meno malati ad aiutarlo a tagliare e pulire gli alberi, a trasportare il materiale e a costruire la case. Deveuster volle coinvolgere nel lavoro più malati possibili, per-ché secondo lui quello era il metodo migliore per distrarli dalla loro miseria e dare nuova-mente senso alla loro vita. Dopo le case, costruirono un acquedotto, poi l’ospedale e una casa per gli orfani. Le sue lettere avevano destato anche la coscienza del governo fino ad allora apatico, che inviò dei materiali, un dottore e degli infermieri. Per i lebbrosi fu come l’inizio di una nuova vita, e grazie a Deveuster erano di nuovo rispettati e trattati come esseri umani. Lo ringraziarono per la sua opera con tanto dolce amore.

C’erano molte razze e religioni sull’isola. Inizialmente, Damian Deveuster si limitò a donare le buone opere della religione solo ai cattolici: predica, cate-chesi e sacramenti. Dovette limitarsi a distrarre i pagani e non – cristiani, creando bande musicali, cori e altre intuizioni, per tenerli lontano dalla noia e dal peccato. Ma pur non sapendo nulla sul cristianesi-mo, furono proprio queste persone a rompere il silenzio e ad assillare il missionario chiedendogli il battesimo. Era l’unico uomo venuto volonta-riamente sull’isola e la ragione diceva loro che doveva quindi avere il vero Dio e la vera fede. E allora si avvicinarono tutti quando il padre celebrò il sacrificio della messa e pre-dicò la dottrina cattolica. Quasi nessuno morì senza aver rice-vuto il sacramento battesimale da padre Deveuster.

Passarono dodici anni e quasi per miracolo Damian Deveuster sembrava immune dal contagio. Nel tredicesimo anno, però, un giorno scoprì sul proprio corpo i segni infallibili del flagello e fece subito rapporto ai supe-riori dell’ordine. Gli fu mandato un sacerdote assistente e l’o-spedale che aveva costruito per i suoi protetti ora si appre-stò ad ospitare anche lui. Deveuster in ospedale? Condannato all’infermità? Avrebbe preferito trascinarsi con le mani e i piedi dai suoi compagni di sventura per non essere un peso per nessuno. Con immensa energia raddop-piò i suoi sforzi. Soltanto 14 giorni prima della morte e quattro anni dopo lo scoppio della malattia accettò di sdraiarsi sul letto ad aspettare pazientemente la morte. Ma il premio per la sua devozione fu l’integrità delle sue mani – nor-malmente le prime ad essere attaccate dalla lebbra – e così riuscì fino alla fine a celebrare i santi misteri e a distribuire il pane degli angeli. Figlio di con-tadini – missionario – martire della carità – beato e presto, speriamo, anche santo della Chiesa cattolica mondiale (breve estratto dal libro di Hans H�mmier: Helden and Heilige, pp. 190-93).

Damian Deveuster non è sol-tanto un esempio eccellente di azione eroica, ma unisce in sé anche la seconda dimen-sione del coraggio, e cioè lo spirito eroico del sacrificio; quest’ultimo si sviluppò soprattutto negli ultimi quat-tro anni della sua vita, duran-te la malattia letale.

è parte integrante del cristia-nesimo che noi portiamo la croce insieme a Cristo. Ogni uomo deve affrontare in maniera diversa la pena nella sua vita. La incontra come pena altrui o pena propria, come miseria materiale o estrema povertà, come indi-genza fisica, fame o sete, fatica o dolore, epidemia o morte. Anche come indigenza psichica, quando non trova comprensione, quando è iso-lato o escluso dalla società, o quando riceve solo freddezza. Molti incontrano la pena in forma di indigenza spirituale, quando sono imprigionati nei peccati e nelle colpe e quan-do devono superare grandi lotte interne nei momenti oscuri.

Molto spesso l’uomo troverà la pena come un blocco di roccia che gli ostacola la strada della felicità. E girerà al largo, per evitarla. Seguirà il principio: Beati i ricchi! Beati i contenti, gli spensierati! Beati gli spieta-ti, i potenti, chi ha successo, e chi è rispettato!

Questo comportamento rende l’uomo egoista e, con le sue azioni, questi contribuisce ad aumentare ulteriormente la pena. Lui stesso rischia di allontanarsi sempre di più da Dio. Dio e la religione diventa-no un dispiacere. Ci vorrà un evento eccezionale per riporta-re quell’uomo sulla giusta stra-da. Forse un colpo del destino, una grave malattia, sempre che la sofferenza non lo renda ancora più duro e che lui veda in essa la punizione per i pec-cati di cui si pente. Allora, la punizione diventa penitenza.

è vero che ogni pena ha origi-ne nel peccato, ma l’uomo non può tornare automaticamente a Dio attraverso la pena; ci vuole l’aiuto della grazia di Dio.

La grazia è una cosa immensa. Non va sprecata, ma guada-gnata. è vero che il Redentore ha guadagnato per noi tutte le grazie soffrendo e morendo sulla croce. Ma nel suo grande amore ci dà la possibilità di diventare collaboratori alla grande opera di redenzione. Portando volontariamente la croce e facendo sacrifici, pos-siamo guadagnare la grazia per altri e aiutare a salvare le anime. Se accettiamo la pena in questa maniera, la penitenza si trasforma in espiazione. E soltanto se siamo pronti all’e-spiazione saremo veri seguaci del Signore. Allora il nostro sacrificio si unirà al suo e ren-derà lode e onore al Padre e porterà salvezza alle anime.

Con l’aumentare del nostro amore cresce anche il nostro spirito di sacrificio e di espia-zione. Se abbracciamo con amore la croce, la gloria e l’u-nione con il Signore nella gioia infinita diventeranno indescrivi-bili.

Dio nella sua grande saggezza ha deciso che il peccato fosse l’origine della pena e che essa diventasse uno strumento del-l’amore. L’uomo è capace di soffrire per amore e acquista con esso un grande potere, di cui non dispongono nemmeno gli angeli. Questi, al contrario di noi, sono però coscienti del dono di grazia. Gli spiriti mali-gni cercano di instillarci i! rifiu-to del sacrificio e riversano tutto il loro scherno sugli uomi-ni pronti al sacrificio. Per que-sto motivo gli angeli buoni s’impegnano a guidarci alla devozione e al sacrificio.

L’angelo che nel 1916 si rivelò tre volte ai bambini di Fatima disse alla seconda visita: “Pregate, pregate molto! I santi cuori misericordiosi di Gesù e Maria hanno dei piani speciali per voi… Offrite al Signore senza sosta le vostre preghiere e i vostri sacrifici…! Tutto può diventare sacrificio. Offritelo a Dio come espiazione per gli innumerevoli peccati che lo offendono e pregate sempre per la conversione dei pecca-tori! Cercate in questa maniera di creare la pace nella vostra patria! lo sono il suo angelo custode, sono l’angelo del Portogallo. Accettate pazien-temente le pene che vi inflig-gerà il Signore!”

“Le parole dell’angelo” raccon-ta Lucia “s’impressero nella nostra mente come una luce e ci fecero capire la natura di Dio, il suo amore per noi e il suo desiderio di essere amato da noi. Grazie alla luce capimmo inoltre il valore del sacrificio e il piacere di Dio quando può convertire un peccatore grazie a un sacrificio. Da quel momento cominciammo a sacrificare a Dio tutte le pene che ci infliggeva”.

Anche il messaggio della Vergine ai bambini di Fatima si basa sulla penitenza e l’espia-zione. Fin dalla prima appari-zione, Maria chiede ai veggen-ti bambini: “Volete offrire sacrifici a Dio e accettare tutte le pene che vi manderà, per espiare gli innumerevoli pec-cati che offendono la sua maestà?”. Durante la terza visione insegna ai bambini una facile preghiera: “O Gesù mio, perdona i nostri peccati! Proteggici dalle fiamme del-l’inferno! Guida le nostre anime in paradiso e aiuta colo-ro che hanno bisogno della tua misericordia!”. Durante la quarta visione chiede nuova-mente di pregare con fervore per i peccatori, poiché molti sono persi perché nessuno si sacrifica o prega per loro.

“E’ un mistero davvero grande e non bisogna mai dimenticarlo: la salvezza di molte anime dipende dalle preghiere e dalle penitenze volontarie delle mem-bra del corpo mistico di Gesù Cristo, che accettano di soffrire per questo motivo”, dice Papa Pio XII in una circolare sul corpo mistico di Cristo (29.6.1943).

Non neghiamo al Signore la devozione per amore! Lui vuole che ci uniamo ogni gior-no a lui e che riconosciamo il nostro compito: essere mes-saggeri dell’amore per la sal-vezza e la pace del mondo. L’amore è l’unico rimedio per salvare il mondo dal fango profondo del peccato. Doniamo attraverso Maria il nostro umile spirito di sacrificio e preghiamo Dio di concederci la grazia del coraggio, tramite Maria, la mediatrice di tutte le grazie, e tramite i santi angeli, per far brillare e splendere chiaramente la nostra piccola fiaccola.