Confessione: perché dire i miei peccati a un sacerdote?
Perché devo raccontare le mie cose a un uomo come me? Non basta che me le veda Dio?
Il fedele che non capisce la natura della Chiesa come mediazione tra lui e Dio, si pone queste domande ed altre ancora. Pur avendo ancora qualche impegno cristiano e una certa adesione a Cristo, ha abbandonato del tutto o quasi la pratica religiosa e sacramentale. Non ha capito la relazione tra sacramento e vita concreta. Non ha capito la natura e la necessità della conversione come fatto costante della vita cristiana. Davanti alle celebrazioni liturgiche e ai sacramenti ha un senso di fastidio e di rifiuto.
Le folle che incontrava Gesù, invece, esclamavano entusiaste: Oggi abbiamo visto cose prodigiose! Mai visto nulla di simile! (Mc 2,12; Lc 5,26).
Perché questa differente reazione davanti al Cristo del vangelo che si fa nuovamente presente nei sacramenti della Chiesa?
“SE TU CONOSCESSI IL DONO DI DIO” (Gv 4,10)
Molte difficoltà sul sacramento della penitenza hanno le radici in un concetto falso o povero del cristianesimo.
È impressionante il fenomeno dell’ateismo e dell’indifferenza religiosa. L’uomo non conosce Dio e le sue opere. Se lo conoscesse non potrebbe rifiutarlo. Alcuni immaginano Dio in modo tale che quella rappresentazione che essi rifiutano, in nessun modo è il Dio del vangelo (GS 19).
Per alcuni Dio è un concorrente che impedisce all’uomo la gioia, la vita, il progresso.
Per altri è un essere inutile, con il quale o senza il quale la vita, il mondo, la storia vanno avanti ugualmente.
Gli stessi credenti vedono o sentono Dio come un essere lontano, vago e astratto. Oppure come un grande re in trono che chiede ed esige omaggi. Essi pensano: Purtroppo c’è anche lui, anche se è un incomodo! Come sarebbe bello se non ci fosse! Volenti o nolenti bisogna fare i conti con lui, adesso, e soprattutto alla fine della vita. E quindi attraverso un minimo di riti e doveri religiosi, cercano di tenerlo buono, con la speranza che l’incontro finale con lui non sia un disastro.
Altri lo vedono come un carabiniere pronto a prendere in fallo per sparare e dannare.
Voltaire ha scritto: Dio ha creato l’uomo a sua immagine e l’uomo si è creato un Dio a sua immagine.
Il cristianesimo è un annuncio di gioia, una lieta sorpresa che fa trasalire di stupore: questo è il significato della parola vangelo.
Questa sorpresa, questo stupore, questo vangelo è Gesù Cristo in persona, Dio fatto uomo, diventato il Dio-con-noi, il Dio-con-me. Il NT si apre proprio con questo annuncio gioioso: Gioisci, tu che sei stata colmata di grazia, il Signore è con te (Lc 1,28).
Un passo della Bibbia ci spiega stupendamente il perché Dio è diventato uomo: La vita si è fatta visibile, noi ne rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi; quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo (1 Gv 1,1-3).
Tutta l’opera di Gesù Cristo, nascita, vita, morte, risurrezione e ascensione al cielo, ha questo scopo: formare comunione tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e l’uomo.
Comunione vuol dire avere in comune una realtà e vivere di essa.
Che cosa c’è di comune tra Dio e l’uomo?
Dopo la redenzione operata dal Cristo, Dio e l’uomo hanno tutto in comune, perché in Gesù sono avvenuti due fatti importantissimi:
– In Cristo, Dio e l’uomo entrano in comunione. Il Figlio di Dio prende la natura umana e comunica all’uomo la natura divina. Ora in Gesù Cristo, Dio ha la natura umana presa da noi e quella divina che ha in sé. L’uomo ha la natura divina donatagli da Cristo e la natura umana che ha in sé. Avendo le stesse realtà in comune, sono in comunione. È lo scambio mirabile cantato dal Natale: Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio.
Dio non è in concorrenza con l’uomo, ma in comunione. E in questa comunione l’uomo trova il significato e la pienezza della propria vita. Dio ha creato l’uomo per avere qualcuno su cui riversare i suoi benefici. Dio non ha bisogno dell’uomo, ma l’uomo ha bisogno della comunione con Dio (s. Ireneo).
– Cristo lega a sé tutti gli uomini che lo accettano.
Unendoli a sé, comunica loro la sua stessa vita divina e li mette in comunione gli uni con gli altri, in se stesso.
Ecco la Chiesa: il popolo nuovo formato da coloro che per mezzo della Spirito e della fede sono uniti al Corpo di Cristo (Durwell). Siamo concorporei con Cristo, perché egli ci ha incorporati ad un solo corpo, il suo. Siccome tutti quelli che aderiscono a Cristo hanno la medesima unica vita divina comunicata loro da Cristo, formano comunione, come le membra di un corpo.
Il cristianesimo appaga pienamente la sete di fratellanza e di comunione. Proprio accettando e vivendo il piano di Dio, l’uomo e la società raggiungono la felicità. Dio non è in concorrenza con l’uomo, ma è il suo grande alleato.
Ma Cristo incarnandosi è rimasto sempre della Trinità. Legando a sé ogni fedele e la Chiesa intera, porta tutti nel cuore della Trinità. E questa non è fantasia. È stupenda realtà di fede. Il Padre ci ha fatti sedere con Cristo nei cieli (Ef 2,16), siamo familiari di Dio (Ef 2,19), siamo cioè entrati nella grande famiglia di Dio. La Chiesa universale si presenta come un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (LG 4). Il mondo intero è chiamato ad entrare nella Chiesa per entrare a vivere nella Trinità.
Il peccato è tutto il contrario di questo progetto d’amore e di comunione voluto da Dio.
“AMA”
La riscoperta del sacramento della penitenza è legata anche all’esatta comprensione del rapporto con Dio. Dio ci chiama alla comunione con sé e con i fratelli: in altre parole, ad amare lui e i fratelli. Quindi la nostra vita con Dio e con i fratelli va impostata sull’amore: Un dottore della legge interrogò Gesù per metterlo alla prova: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”. Gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,35-40).
Questa parola tutto è dura ed entusiasmante insieme. Vuol dire senza limiti, perché la misura dell’amore è amare senza misura! È una meta mai perfettamente raggiunta, ma è qui che si misura la tensione autentica di una persona.
Nell’ultima udienza generale papa Giovanni Paolo I disse: “Il totalitarismo in politica è una brutta cosa. In religione invece un totalitarismo nei confronti di Dio va benissimo. Quel ‘tutto’ ripetuto e piegato alla pratica con tanta insistenza è davvero la bandiera del massimalismo cristiano. Ed è giusto: è troppo grande Dio, troppo egli merita da noi, perché gli possiamo gettare, come ad un povero Lazzaro, appena poche briciole del nostro tempo e del nostro cuore”.
La tensione serena verso questo tutto dovrebbe crescere fino a coinvolgere la vita nella fiamma purissima dell’amore di Dio. C’è arrivata anche una mistica musulmana, una povera schiava, Rabi’a Al Adawiyya, morta nell’ 801: “O Dio, se ti adoro per paura dell’inferno, bruciami nell’inferno. Se ti adoro per la speranza del paradiso, escludimi dal paradiso. Ma se ti adoro per amor tuo soltanto, non ritirare da me la tua eterna bontà. Tu sei abbastanza per me!”. E san Francesco d’Assisi ha esclamato: “Tu sei il sommo bene, tu sei ricchezza che a tutto basta!”
La medesima impostazione vale in rapporto all’amore del prossimo. Amarlo come Cristo ha amato noi vuol dire spendere la vita in uno sforzo che non conosce limiti e condizioni, perché in lui è presente Cristo che dobbiamo amare con tutto il cuore.
A questo punto ci domandiamo se la legge ha ancora senso. Certamente. Siamo creature umane e abbiamo bisogno spesso di un pungolo e di una verifica. La legge è fatta per gli ingiusti, non per i giusti (1 Tm 1,9). I giusti, amando, vanno oltre la legge. S. Giovanni della Croce ha scritto per coloro che sono arrivati alla sommità della salita del monte Carmelo: “Da qui in poi non c’è più legge, perché non c’è legge per i perfetti”.
Nella situazione concreta di imperfezione, noi accettiamo umilmente la legge, ma dobbiamo viverla nell’amore, cercando di non fermarsi mai ad essa, perché l’osservanza senza amore non è osservanza. Dobbiamo andare oltre il minimalismo sterile e soffocante. Non dobbiamo accontentarci di un minimo, ma cercare di vivere in pienezza il valore che la legge ci presenta.
La legge allora diventa un dono che Dio ci fa per trovarlo e insieme per vivere il suo piano d’amore e di salvezza: “Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia, più che in ogni altro bene” (Sal 119,14).
L’amore ci costringe, ci rende schiavi di Dio e quindi liberi. La legge ci porta a entrare nell’amore di Dio.